«Vede? Ho la casella mail piena di richieste per fuggire da Panama». Per lavoro, Marco fa girare i soldi. Crea società e conti correnti off-shore su cui i soldi arrivano, sostano e ripartono in un clic, dileguandosi senza lasciare traccia. È un Caronte moderno: anziché all’inferno traghetta i suoi clienti in paradiso. Fiscale. Marco ha visto raddoppiare il suo lavoro dal 3 aprile.
Quel giorno, oltre 400 giornalisti di 76 Paesi hanno pubblicato un’inchiesta basata su 11 milioni di documenti riservati dello studio legale Mossack Fonseca, colosso panamense attivo nella creazione di società anonime.
I cosiddetti «Panama Papers» hanno raccontato gli affari all’estero di 14 mila clienti, tra cui 140 leader politici. E 800 italiani. Che ora rischiano sanzioni e un’indagine penale: anche se aver creato società o conti off-shore non li qualifica come fuorilegge, non averli dichiarati al fisco li rende degli evasori.
Provando a cercare su Google «Panama Papers», il primo risultato che viene fuori non è quello del Süddeutsche Zeitung, il quotidiano tedesco che per primo ha ricevuto la «soffiata», ma quello dello studio legale Tamagnone Di Marco, specializzato nella protezione di patrimoni. «Con un investimento di 50 euro in annunci pubblicitari online, abbiamo ricevuto molte telefonate di clienti preoccupati», spiega l’avvocato Cesare Di Marco.
Che, a chiunque fosse implicato nello scandalo, consiglia il ravvedimento operoso. «Costa di più della voluntary disclosure (circa 130 mila italiani ne hanno usufruito entro lo scorso novembre, dichiarando 60 miliardi di euro nascosti, un quinto dei soldi degli italiani off-shore secondo Banca d’Italia, ndr), ma è molto più veloce. In cambio di una piccola sanzione, il cliente sanerà completamente la sua posizione in poche ore. È meglio “costituirsi” prima di ricevere l’accertamento fiscale».
Se i «pizzicati» corrono all’Agenzia delle Entrate, gli «scampati» vanno alla ricerca di luoghi più discreti dove sotterrare i propri tesori, mentre si alza il pressing da parte dell’Ocse e del Tesoro Usa per lo scambio tra gli Stati delle informazioni finanziarie: flussi di denaro, conti correnti, nomi dei titolari. «Molti ci chiedono di approdare in lidi più sicuri», spiega Marco da Londra. «Svizzera, Lussemburgo, Montecarlo e Cayman sono usciti fuori dal radar dopo aver deciso di scambiare informazioni con gli altri Stati.
Singapore e Hong Kong hanno espresso ufficialmente l’intenzione di seguirli». Le nuove mete vanno cercate altrove, in nazioni con buone infrastrutture, uno scenario politico stabile, un regime fiscale nullo e un segreto bancario sfacciato: «Dubai è forse la più promettente. Ha un’economia florida, un nome “figo” e un governo solido. Le Seychelles sono ottime nell’erogazione delle azioni al portatore, praticamente contanti. Il Belize è in ascesa, ma ha funzionari lenti. Personalmente adoro il Bahrein, dove piazzo tutti i clienti più grossi: c’è un governo che non tollera fughe di notizie». E poi ci sono gli atolli dai nomi sconosciuti: Vanuatu («anche se ancora acerba»), Nevis («che offre il passaporto in cambio di 150 mila euro») e Nauru («la cui discrezione sta diventando leggendaria»). Gli esperti del settore tengono un occhio anche su Libano e Liberia, mete ancora «penalizzate» da una situazione politica instabile.
Ma il paradiso non va cercato per forza ai Tropici. Basta andare in Gran Bretagna o Montenegro. Oppure negli Stati Uniti, terzo paese al mondo più opaco finanziariamente per il Financial Secrecy Index 2015 del Tax Justice Network. «Il rifugio fiscale più in ascesa si trova a 200 chilometri da Wall Street», fa notare un tributarista di Lugano. È lo Stato del Delaware, uno dei tre paradisi a stelle e strisce assieme a Nevada e Wyoming: tre contee, 900 mila abitanti e 1 milione di società.
Nella città di Wilmington c’è un indirizzo diventato mitico: il 1209 di North Orange Street. Vi si trova un edificio giallo ocra dove hanno sede legale quasi 300 mila società, tra cui filiali di Google, Coca-Cola, Apple e Bank of America. No, non si tratta del palazzo più grande al mondo. È soltanto la sede della Ct Corporation, studio che si occupa di registrare nuove società e di dare loro una casella postale. Crearne una qui costa appena 600 dollari, un paio d’ore e, si suppone, un documento. In cambio, la società sarà protetta da impiegati inclini alla riservatezza assoluta e pagherà zero tasse per i redditi prodotti all’estero. Praticamente tutti, a meno che non abbiate intenzione di aprire una gelateria nel Delaware.
Sempre più società di consulenza tributaria puntano qui, facendosi concorrenza grazie a prezzi stracciati e garanzie di sicurezza. I siti dei «caronti fiscali» sono pieni di offerte da far impallidire l’homepage di Ryanair. Per aprire una società in Belize bastano una connessione Internet e 700 euro, mille per averne una in Montenegro. A far lievitare il prezzo fino a 1.300 sono i servizi aggiuntivi: conto corrente anonimo, direttore della società fornito dallo studio, imposte di registro e tasse (ahimè) sul capitale.
Le comunicazioni tra cliente e consulente sono ingabbiate in protocolli di sicurezza di livello quasi militare. «Tutte le telefonate passano attraverso i server della nostra compagnia Voip; le mail e i messaggi sono criptati e si autodistruggono dopo essere stati letti; i documenti cartacei sono banditi; le informazioni si trovano soltanto in rete e sono sempre compartimentate», assicura con orgoglio Giovanni Caporaso, definito «il guru italiano dell’offshore». Titolare della OPM Corporation con sede a Panama, ex giornalista, nel 1986 creò qui la sua prima società, proprio grazie allo studio legale Mossack Fonseca. Da allora, con estrema dedizione ha raffinato i meccanismi per soddisfare i suoi clienti desiderosi di riservatezza. In 30 anni, mai un senso di colpa: «È come se vendessi una Beretta per difesa personale. Se il cliente la usa per fare una rapina, non è colpa mia».